Riflessione filosofica sulla storia e la cura dei disturbi psichici



 (Lavoro Primo Classificato al Premio Nazionale di Filosofia "Le Figure del Pensiero" 2016 dal titolo "La sofferenza nel mondo della tecnica e i limiti della terapia psicologica. 
Riflessione filosofica sulla storia e la cura dei disturbi psichici")

La storicità della psiche e della sofferenza mentale

Già C.G. Jung, considerando epocali i fenomeni psichici, sottolineava la natura storica della psiche e della sofferenza mentale, che nasce e si modifica in base al tipo di cultura vigente in una certa società e in una certa epoca storica.

Le nostre psico-patologie infatti cambiano in base al contesto storico e culturale in cui sono inserite ed entro cui vengono osservate: nel '600, dopo che Cartesio aveva ridotto il corpo ad un insieme di organi separati dall'anima, si ebbe una rapida diffusione dell'ipocondria, ovvero il timore di aver contratto malattie o di avere un malfunzionamento di qualche organo. In epoca vittoriana invece, periodo storico in cui vigeva la repressione sessuale, ci si ammalava di isteria, che sin dall'etimologia allude ai genitali interni femminili. Anche il termine “schizofrenia” fu coniato ufficialmente nel periodo immediatamente precedente la prima Guerra Mondiale, in un epoca cioè in cui il medesimo fenomeno di “frammentazione” stava avvenendo nella cultura generale.

Dunque i disturbi mentali sono strettamente connessi sia con la storia ma anche con la cultura in quanto “i cambiamenti culturali influenzano i sistemi di credenze sociali, che a loro volta modellano la manifestazione dei sintomi psichiatrici” (Zheng, 1994). In Cina ad esempio si utilizza un Manuale Diagnostico dei disturbi mentali (CCMD) diverso da quello occidentale (DSM) in quanto più adatto ad interpretare la malattia mentale in quella specifica cultura: il CCMD infatti contiene alcuni disturbi che trovano una loro giustificazione solo in Cina in quanto legati a quella particolare cultura e a quella particolare situazione economica e sociale (es. “la psicosi di viaggio”, legata alla situazione sociale ed economica cinese del dopo-riforma) (Lee, 1998).

Ackerknecht disse che “Ciò che è malato è malato soltanto in questa società e in questo periodo: i normali di un'epoca e di una cultura sono gli anormali di un'altra epoca e di un altro luogo” (Ackerknecht, 1943) in quanto, prosegue Fromm, “ogni società in virtù dei propri costumi e delle proprie modalità di relazione, sentimento e percezione sviluppa un sistema di regole che determina le forme di consapevolezza e che opera come un filtro socialmente condizionato” per cui “ogni società vieta che certi pensieri e certi sentimenti possano essere pensati, sentiti ed espressi” (Fromm, 2004) ed è proprio da questo “rimosso” che prendono forma le sofferenze psichiche.

E allora, per comprendere le nostre attuali forme psico-patologiche, occorre domandarci quali sono oggi i modelli sociali che plasmano la nostra psiche e in che tipo di società abitiamo.

Il disagio psichico nella società della tecnica

Benasayag e Schmit hanno ben evidenziato come la sofferenza oggi non abbia una vera e propria origine psicologica, ma rifletta bensì quel senso di tristezza, dovuta all'insicurezza e alla precarietà, che caratterizza la società del nostro tempo. Fromm ci dice che “Il mutamento rilevabile per quanto riguarda le manifestazioni delle nevrosi procede di pari passo con mutare dei modelli culturali (…) e oggi la maggior parte delle persone che vanno dallo psicologo soffre di ciò che un tempo si chiamava malaise du siècle, una sensazione indefinita di disagio tipica del nostro tempo” (Fromm,1995).
E da cosa è caratterizzato il nostro tempo? Il nostro tempo, ricorda Husserl, è caratterizzato dall'eccessiva specializzazione di tutti gli ambiti di conoscenza, dentro quella “civiltà della globalizzazione” che ha fatto della tecnica e della scienza pilastri su cui fondare l'intera esistenza, senza considerare che la scienza e la tecnica funzionano in un mondo in cui tutto, comprese le persone, deve essere ridotto a ente controllabile, disponibile e manipolabile, cioè a puro oggetto.

In questa “società dell'efficienza”, come la chiama Ehrenberg, il proprio Sè riesce a strutturarsi solo tramite l'aspetto esteriore, che è diventato un vero e proprio test quotidiano di abilità (Squicciarino,1996). Da questo prendono avvio tutte quelle problematiche psicologiche riconducibili al concetto di “empty-self (Cushman, 1990) ovvero la vuotezza del Sé, dovuta ad un identità che riesce a costruirsi solo con il materiale fornito dalla pubblicità e dalla cultura di massa, dove acquistando beni di consumo si acquista anche una frammentata immagine di sé a seconda del bisogno del momento (Firat, 1992).

Anche Bodei evidenzia quanto il diffondersi di atteggiamenti banali e superficiali, favoriti da modelli consumistici, determinino un appiattimento della vita e delle relazioni ed una conseguente perdita dei loro significati più profondi, dove la follia è oggi rappresentata dall'incalzare delle preoccupazioni, dalle frustrazioni, dai desideri inappagati, dai piani di vita inevasi, dalla rottura dei rapporti personali e dalla mancanza di certezze. L'uomo moderno, continua il filosofo, tende a negare il dolore, la realtà del limite, la morte finendo così col perdere il contatto con il proprio mondo interno.

Dunque, nell'odierna società tecnologica, il mondo interiore è il vero “rimosso” in quanto non funzionale ai fini che essa stessa si propone: oggi la nostra psiche, fatta di emozioni, affetti, sentimenti, relazioni è diventata un intralcio al buon “funzionamento” dell'individuo nella società, in quanto per rispettare i modelli socialmente imposti, come l'essere funzionali ed efficienti, non si ha bisogno di alcuna interiorità. L'individuo allora si ritrova a vagare privo di quella biografia emotiva in grado di fargli conoscere, chiamandoli per nome, i propri tumulti interiori; a quel punto, inabile a riconoscere le proprie emozioni, non può riconoscerle negli altri che appariranno così senza storia né biografia mentre il mondo, diventato inanimato ed inquietante, prende la forma di tutti quei disturbi tipici del nostro tempo.

Quindi è proprio in questo “allontanamento dall'umano” che si possono collocare i disagi del mondo odierno: per questo l'aspetto curativo consiste essenzialmente nel ristrutturare quella biografia emotiva che altro non è se non il racconto di se stessi.

Un paradosso moderno: la tecnica come terapia psicologica

Nell'epoca dell'efficienza tutto diviene specializzazione e tecnica, compreso l'animo umano che, sottratto all'individuo, viene inesorabilmente convertito nel linguaggio medico/scientifico.

Le prime avvisaglie di questa tendenza, nota Szasz, si ebbero con Freud che, estendendo le frontiere della medicina sulla vita, fece acquisire un carattere patologico alla vita stessa annettendo la condizione umana alla professione medica, come si evince dal suo libro “Psicopatologia della vita quotidiana”. Parras, nel 1974, medicalizzò addirittura il riposo e la tranquillità creando il “Centro Distensione”, ovvero un luogo il cui scopo terapeutico era semplicemente quello di “fornire un ambiente tranquillo e distensivo”, come, nel 1950, si proponeva di fare il metodo di Chestnut Lodge, elaborato da F. F. Reichmann, in cui si curava l'ansia mediante la creazione di un atmosfera di sicurezza (Bazzi, 1970).

Oggi questa tendenza ha raggiunto il suo apice, in quanto ogni sofferenza è chiamata malattia e ogni attività umana di cui l'uomo beneficia terapia: il sollievo e la consapevolezza che dà il leggere determinati libri è detta biblio-terapia, l'ascoltare una certa musica, musico-terapia, e persino il ridere, da atto spontaneo, è divenuto un esercizio nella cosiddetta terapia della risata.

Questo ci fa comprendere bene quanto l'aspetto umano sia stato medicalizzato, traducendo ogni attività umana nel linguaggio tecnico/scientifico: oggi infatti qualsiasi attività che un individuo potrebbe fare in compagnia di un'altra persona può essere definita terapeutica e da questo assunto non sono esclusi il parlare e l'ascoltare, punti cardini d'ogni psicoterapia (Szasz, 1981).

Le persone, avverte Szasz, si sono sempre influenzate a vicenda, ma oggi s'è determinata la tendenza a chiamare ciò “psico-terapia”, dimenticando che essa, basandosi sull'ascolto e sul dialogo, rappresenta una terapia solo in senso metaforico.

Non solo ma la psicoterapia, definendosi “un interazione tra uno o più pazienti (…) volta ad influenzare disturbi del comportamento e situazioni di sofferenza (…) con strumenti psicologici (…) per mezzo di tecniche apprendibili” (Strotzka, cit. in Achenbach, 2009) cade oggi in un irrimediabile paradosso, laddove cerca di curare le sofferenze psichiche, dovute al mondo ipertecnologico, somministrando a sua volta una tecnica, figlia cioè di quello stesso sistema da cui è sorto il disagio.

Così il parlare e l'ascoltare, da moduli di comunicazione umana, divengono tecniche in grado di curare le sofferenze psichiche, perdendo di vista ciò che molti studi hanno ormai appurato e cioè che l'efficacia della cura non dipende tanto dal metodo o dalla tecnica usata, quanto dalla relazione umana che si riesce ad instaurare (1): ciò che è terapeutico è il “ristabilire il legame delle relazioni umane con il paziente” come dice Arieti o il parlare ai pazienti “come un essere umano parlo con un altro” come dice Jung (Szasz 1984; 1981).

Oggi più che mai allora l'aspetto curativo consiste proprio nel ristrutturare la propria biografia, recuperando quel mondo psichico che l'era della tecnica ha rimosso attraverso la sua medicalizzazione: oggi, paradossalmente, è realmente “terapeutico” quel che resta fuori da questa definizione, ovvero quelle attività umane ancora non tradotte nel linguaggio tecnico-scientifico.
Il mondo psichico infatti non può essere recuperato attraverso una “tecnica” e quindi una “psico-terapia”, ma bensì attraverso un riavvicinamento all'umano, a quell'animo umano, che prima di essere medicalizzato e rinchiuso nei libri di psicologia, ha sempre dimorato nelle storie narrate dalla letteratura.

Psicoterapia come letteratura. Dalla psicologia pratica alla psicologia teorica

Oggi la psicologia è considerata, da un certa impostazione scientifica, alla stregua di una forma più o meno evoluta di letteratura. Ma questo, alla luce di quanto esposto, invece di sminuire la psicologia, l'ha involontariamente rivalutata: infatti la letteratura offre uno scenario in cui poter recuperare tutto quel rimosso del nostro tempo, il mondo psichico, attraverso la narrazione dei sentimenti e delle emozioni. Il romanzo infatti, dice Kundera, “fa i conti con l'inconscio ben prima di Freud, con la lotta di classe ben prima di Marx e pratica la fenomenologia (la ricerca dell'essenza delle situazioni umane) ben prima dei fenomenologi. Che magnifiche descrizioni fenomenologiche si trovano in Proust!”.

La letteratura, proprio come in uno specchio in cui potersi riflettere, mostra all'uomo cosa sono i sentimenti e in quali forme essi si manifestano, innescando quell' “effetto specchio” di cui parla la psicologia, in cui il soggetto, vedendosi riflesso nell’interazione con gli altri membri di un gruppo terapeutico, impara a conoscersi e a riconoscere i propri sentimenti ed emozioni, sviluppando quella che Foulkes chiama “risonanza” (Neri,2004). Si utilizza addirittura uno specchio reale in numerosi esercizi dell'analisi transazionale con lo scopo di far integrare particolari sentimenti (Murjel, Jongeward,1980). E proprio su questa funzione di integrazione dei sentimenti, Hillman sostiene che la psicoterapia non sia altro che una narrativa che cura in quanto dà “unità” a un'anima, svolgendo quell'intento terapeutico tipico dell'arte dello scrivere, e dato che “la nevrosi origina da uno stato frammentario della coscienza umana, essa può essere curata soltanto dalla totalità, sia pure approssimativa, dell’essere umano” (Carotenuto, 1992), totalità che la letteratura rappresenta.

In altri termini, dice Venturini, attraverso la lettura di un testo, quei momenti di pienezza, di armonia e di integrazione che lo scrittore ha raggiunto si comunicano anche a noi, ci coinvolgono, producendo quelle identificazione profonde che proviamo da spettatori-ascoltatori-lettori quando osserviamo, ascoltiamo o leggiamo.

Ecco perché Muriel Barbery si domanda se la letteratura, in fondo, non sia altro che un televisore in grado di attivare i neuroni specchio, mostrandoci così tutte le occasioni perdute e i brividi dell’azione, facendoci identificare con il mondo dell'interezza.

La narrazione infatti è la sostanza di cui è fatto l'animo umano: Bruner, nel suo concetto di "psicologia culturale", evidenzia la presenza di un Sé narratore, un Sé che narra storie in cui la descrizione del Sé fa parte della storia; egli afferma: “per tutta la vita non facciamo che raccontare noi stessi. Possiamo ritenere, per diverse finalità, che raccontare queste storie su di noi agli altri equivalga a eseguire dei veri e propri atti narrativi. Tuttavia, nel dire che raccontiamo queste storie anche a noi stessi, noi racchiudiamo una storia nell'altra. È la storia che c'è un Sé a cui raccontare qualcosa, qualcun altro che funga da pubblico, che è se stessi o il proprio Sé. 
Quando le storie che noi raccontiamo agli altri su noi stessi riguardano altri nostri Sé, per esempio quando diciamo: "Non sono  padrone di me stesso", allora di nuovo stiamo racchiudendo una storia nell'altra.Da questo punto di vista il Sé è un raccontare. Questo raccontare può variare a seconda delle occasioni e delle persone”.

Attraverso la scrittura e il racconto di sé, aggiunge Venturini, la mente può oggettivarsi, può guardarsi e riorientarsi, rivolgendo il suo interesse al di là dei confini individuali, per comprendere aspetti più ampi della vita e dell’umanità. Il racconto di sé rende più “reale” la vita, portandola oltre la sua transitorietà e dandole senso nel connetterla a ciò che è reale al di là della immediatezza spaziale e temporale, al di là dell’ordinaria contingenza. Viene così a delinearsi una diversa identità: connettiva, complessa, interrelata, un’identità che va oltre la limitata individualità biologica, storica, culturale e personale per riconoscersi parte di una più ampia intelligenza-compassione che comprende l’intero universo.

Ed ecco come la letteratura, dice Italo Calvino, possa diventare un metodo di conoscenza, una “pratica di vita” che incide sull'organizzazione stessa della mente e nel riorientamento di bisogni e motivazioni, promuovendo la consapevolezza della comune “natura” di tutti gli uomini, ricollegandoci cioè, diremmo noi, a tutto ciò che di umano ci appartiene.

Questo perché nella letteratura è racchiusa tutta quella soggettività che la psicologia è stata costretta ad ignorare per diventare una scienza “oggettiva”, riducendo la storia individuale ad anamnesi (2).

Ma, avverte Sacks, “Le anamnesi (…) non ci dicono nulla sull'individuo e sulla sua storia; non comunicano nulla della persona e della sua esperienza, di come essa affronta la malattia e lotta per sopravvivere. Non vi è "soggetto" nella scarna storia di un caso clinico; le anamnesi moderne accennano al soggetto con formule sbrigative ("albino femmina trisomico di 21 anni") che potrebbero riferirsi a un essere umano come a un ratto. Per riportare il soggetto – il soggetto umano che soffre, si avvilisce, lotta – al centro del quadro, dobbiamo approfondire la storia di un caso sino a farne una vera storia, un racconto: solo allora avremo un "chi" oltre a un "che cosa", avremo una persona reale, un paziente, in relazione alla malattia – in relazione alla sfera fisica. L'intima natura del paziente è del tutto pertinente all'ambito d'indagine più elevato della neurologia e alla psicologia, poiché esse hanno intimamente a che fare con la personalità del paziente, e lo studio della malattia non può essere disgiunto da quello dell'identità. Ha scritto Lurija: «La capacità di descrivere, così comune nei grandi neurologi e psichiatri dell'Ottocento, oggi è quasi scomparsa... È necessario ridarle vita». (...) La tradizione ottocentesca di cui parla Lurija, la tradizione del primo storico medico, Ippocrate, e la tradizione universale e preistorica che ha sempre visto i pazienti raccontare al medico la loro storia (...) In questi campi, lo scientifico e il romantico, il romanzesco, chiedono a gran voce d'incontrarsi: Lurija amava parlare di "scienza romantica" (...) Ma che fatti! Che fiabe! A che cosa paragonarli? Forse non possediamo i modelli, le metafore o i miti necessari. Che sia giunto il tempo di nuovi simboli, di nuovi miti?”. Forse sì, se consideriamo, con Eliade, il racconto di sé come un prolungamento del mito: “Credo che ogni narrazione, anche quella di un fatto banalissimo, prolunghi le grandi storie raccontate dai miti perché spiegano in che modo questo mondo è nato e come mai la nostra condizione è quella che noi oggi conosciamo. Penso che l’interesse per la narrazione fa parte del nostro modo di essere al mondo. Essa corrisponde al bisogno che abbiamo di comprendere quel che è successo, quel che hanno fatto gli uomini, ciò che possono fare, i rischi, le avventure, le prove di ogni sorta. […]. Siamo esseri di “avventura”. E mai l’uomo farà a meno di ascoltare storie”.

Storie curative raccontate sotto forma di diari dunque, di lettere agli amici, di dichiarazione drammatizzata o verbale, come “La confessione” di Tolstoj, racconto che lo scrittore ha creato per liberarsi dalla propria depressione.

E forse, è proprio questo il compito cui la psicologia oggi è chiamata: sviluppare quella capacità di descrizione, come suggerisce Sacks, in grado di approfondire la storia di un caso clinico fino a farne un racconto (3). Un racconto nuovo, in grado di narrare il paziente in una forma diversa rispetto a quella con cui egli si è sempre raccontato e con cui gli altri continuano a raccontarlo.

Per concludere

La psicologia, per essere efficace nel mondo odierno, dovrebbe recuperare la narrazione del mondo psichico, dando così luce al “rimosso” del nostro tempo, senza però far riferimento ad una psico-terapia e quindi ad una tecnica, divenendo altresì terapeutica come una forma di letteratura.

Considerare la psicologia come una forma di letteratura comporta però un repentino cambio di prospettiva: da questo punto di vista infatti lo psicologo, come già avanzava Szasz, dovrebbe essere solo un “teorico”, per tanto non distino dal sociologo o dall'antropologo, e non un “praticante” che seleziona, classifica e cura. Un teorico in grado di trasformare un caso clinico in una nuova narrazione di sé e di raccontarla al paziente; un teorico che, attraverso l'empatia, rende partecipe delle sue conoscenze i pazienti, che possono poi “utilizzare” per comprendere meglio se stessi e per il proprio benessere. Questo cambia radicalmente lo scenario in quanto non è più il terapeuta che cura perché, come già diceva Jung, se il cambiamento che avviene nel paziente è prodotto dal paziente stesso è falso affermare che sia stato lo psicoterapeuta a curarlo. E le sue conoscenze allora devono essere sì psicologiche, ma anche e soprattutto letterarie, filosofiche, poetiche, mitologiche perché è proprio da questo scenario che emerge la psiche con tutte le sue manifestazioni.


BIBLIOGRAFIA

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Benasayag M.; Schmit G., “L'epoca delle passioni tristi”, Feltrinelli, 2004

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Bruner J.; “La ricerca del significato”, Bollati Boringhieri, 1992

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Cushman P., “Why the self is empty”, American Psychologist, 45, pp. 599-611, 1990

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Husserl E., “La crisi delle scienze europee e la fenomenologia transcendentale”, Il Saggiatore, 1972

Jung C.G.; “Riflessioni teoriche sull'essenza della psiche” in Opere, vol. VIII, Bollati Boringhieri, 1996

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Lee S.; “Higher earnings, bursting trains and exausted bodies: the creation of travelling psychosis in post-reform China”, Social Science and Medicine, v. 4, n.9, 1998, pg. 1253

Murjel, J., Jongeward, D., "Nati per vincere", Ed.Paoline, 1980

Neri C., "Gruppo" Borla, 2004

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Squicciarino N., “Il vestito parla: considerazioni psicosociologiche sull’abbigliamento” , Armando Editore, 1996

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Tolstoi Lev N.;  “La confessione”, Feltrinelli, 2009

Venturini R.; “Dalla biografia alla trans biografia”, articolo tratto dal sito “scribd.com”, 2013

Zheng Y.P. , Lin K.M., Zhao J.P. et al., “Comparative study of diagnostic system; chinese classification of mental disorders”, Comprehensive Psychiatry, v.35 n.6, 1994, p.446.


(1) Si vedano tra l'altro gli studi di Gabbard G.O.; “Psichiatria psicodinamica” Cortina, 2002 e di Denker e Stokvis (1952) riportati in Bazzi T.; “Le psicoterapie”, Rizzoli, 1970

(2) Il problema della psicologia come scienza è un tema già trattato nell'articolo finalista al Premio Nazionale di Filosofia “Le figure del pensiero” 2015 dal titolo "Psicologia e psicoterapia. Critica filosofica alla teoria e alla prassi psicoterapeutica", pubblicato sulla rivista "ConFilosoFare" anno I – numero 1 - Casa Editrice "Sillabe di Sale" dell'autore Stefano Coletta.

(3) A tal proposito è interessante ricordare, seppur con le dovute differenze, il “Racconto Sistemico”, che è un metodo usato in psicoterapia familiare, in cui si costruisce una storia che si svolge in altri luoghi e in altri tempi utilizzando la struttura e i personaggi della fiaba tradizionale.

Per approfondire: Caillé P., Rey Y., "C'era una volta. Il metodo narrativo in terapia sistemica", FrancoAngeli, 1998

Si vedano inoltre:

Cavallo M.; “Il racconto che trasforma”, EDUP, 2001

Mondello E.; “Italo Calvino”, Ed. Studio Tesi, 1990


Motivazione ufficiale della scelta di primo premiato

"L’articolo è stato premiato perché evidenzia in modo estremamente limpido la caratteristica di noi esseri umani: siamo un insieme e non tanti piccoli pezzi separati. Partendo così dal concetto di malattia, diverso a seconda delle epoche e dei contesti geografici in cui ci troviamo, possiamo giungere ad un concetto di cura che non ci smembra ma ci restituisce la nostra interezza. 
Lo psicologo, il filosofo, l’antropologo… non utilizzerà delle tecniche pratiche che cambieranno l’uomo, ma sarà lui per primo a possedere una conoscenza a tutto tondo di quello che riguarda il pensare e agire umano per metterlo a disposizione di chi sente il bisogno di fare un passo in avanti nella propria vita. 
Questa conoscenza comprenderà la psicologia, la letteratura , la filosofia e la mitologia. 
L’articolo vince per il suo coraggio e per essere uscito da quel sentiero che fino ad oggi ha diviso e non unito gli esseri umani: essere troppo specializzati in una sola disciplina ci distrare da una visione di insieme riducendoci a troppo poco di noi. Siamo un occhio che cammina o siamo uomini?"