(Articolo finalista al Premio Nazionale di Filosofia "Le figure del pensiero" 2015 dal titolo
"Psicologia
e psicoterapia. Critica filosofica alla teoria
e alla prassi psicoterapeutica",
pubblicato nel volume "ConFilosoFare" Anno I - Numero I - Casa Editrice "Sillabe di Sale" -
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Psicologia e Filosofia
La psicologia ha sempre cercato di tradurre concetti filosofici nel linguaggio scientifico: il concetto di “associazione” ad esempio, sulla scia del quale Wundt fonda a Lipsia il primo laboratorio scientifico dove analizza i processi mentali con la tecnica dei tempi di reazione, fu preso a prestito dalla filosofia trovandosi sia in Platone, che nel “Fedone” illustra con esempi i principi di contiguità e somiglianza, sia in Aristotele che sul saggio sulla “Memoria” illustrata 3 possibili tipi di relazioni: contiguità, somiglianza, e contrasto.
Poco
dopo nasce la psicoanalisi e con essa le terapie delle sofferenze
mentali attraverso il colloquio. Ma anche l'impalcatura teorica della
psicoanalisi è in gran parte ripresa dalla filosofia: l'inconscio, ad
esempio, come ricorda lo stesso Freud, è un idea presa in prestito da
Schopenhauer, che fu il primo ad ipotizzare che dentro ciascuno di noi vi
siano due componenti: quella dell’individuo e quella della specie;
Freud non fece altro che tradurre tale suddivisione con le parole Io e
Inconscio, racchiudendo in quest’ultimo le esigenze della specie, quali
la sessualità per procreare e l’aggressività per difendere la prole.
La dimensione inconscia era comunque già conosciuta sin dal seicento, come ci ricordano ad esempio l'abate Lamy e Leibniz, essendo esso in realtà un concetto che ha sempre fatto parte dell'uomo, sotto forma di quell'irrazionale, che è la propria natura selvaggia, che la cultura greca era solita proiettare negli dèi.
La dimensione inconscia era comunque già conosciuta sin dal seicento, come ci ricordano ad esempio l'abate Lamy e Leibniz, essendo esso in realtà un concetto che ha sempre fatto parte dell'uomo, sotto forma di quell'irrazionale, che è la propria natura selvaggia, che la cultura greca era solita proiettare negli dèi.
Così anche il concetto di "Es",
ovvero il mondo pulsionale, è un concetto preso in prestito dal
filosofo Nietzsche, ma laddove per Nietzsche l’ “Es” identifica il
primato del mondo pulsionale sull’Io, “Es-so pensa”, cioè è il
mondo pulsionale che pensa e non la razionalità dell’Io, per Freud
diventa invece il luogo in cui l’Io deve mettere radici, “dov’era l’Es deve subentrare l’Io”
ribaltando completamente il concetto dandone una lettura clinica,
strutturale ed oggettiva tipica del linguaggio scientifico a cui Freud
mirava.
Infine,
anche l'interpretazione dei sogni è una pratica già anticipata da
Cardano nel 1500 e in un certo senso anche Paracelso e Antifonte.
Ma
questo passaggio dalla grammatica filosofica a quella scientifica è
possibile? La psicologia può essere scienza come le scienze naturali?
Psicologia e Scienza: la psicologia ha un "oggetto" di indagine?
La psicologia non può essere scienza perché la scienza, per essere oggettiva, deve escludere da sé tutto ciò che è soggettivo, quindi psicologico: il paradosso infatti è che la psicologia studia tutto ciò che la scienza deve eliminare dalla sua ricerca, cioè la soggettività. La scienza infatti:
- parla solo in presenza di una costanza di ripetizione:
ma il mondo psichico si offre come un fluire dove, come dice
Wittgenstein, le cose non si ripetono e dunque della psiche non si da
scienza;
- deve esprimere una legge universale:
ma la conoscenza dell'individuo, essendo diversa da individuo a
individuo non permette nessuna generalizzazione, pertanto a nulla vale
la misurazione delle variazioni dei contenuti di coscienza in quanto
ogni individuo è un individuo a sé.
Ecco
perché la psicologia può sì studiare le facoltà umane quali
l'apprendimento, l'emozione, l'intelligenza, la memoria, la motivazione,
etc ma senza per questo aver compreso nulla del modo in cui il singolo
individuo, la singola psicologia, apprende, si emoziona, etc. Guardiamo
l'esempio del lutto: la psicologia guarda il lutto in base alle 4 fasi
descritte da Bowlby (disperazione, ricerca della persona,
disorganizzazione, riorganizzazione della propria vita) ma queste fasi
non mi dicono nulla del modo in cui io personalmente esperisco il lutto e
questo perché, come già diceva Aristotele, dell'individuale non si da sapere in quanto, riprende Husserl, la soggettività non può essere conosciuta da nessuna scienza oggettiva.
La
psicologia allora si ritrova a non avere un reale oggetto di indagine:
se infatti vogliamo studiare il comportamento esterno direttamente
osservabile, come voleva Watson criticando Wundt, dobbiamo sapere che
l’atto di osservare influisce sull’oggetto dell’osservazione quindi non
possiamo raggiungere quell'oggettività a cui la scienza mira (tanto è
vero che sotto osservazione i nostri comportamenti cambiano perdendo
spontaneità). Se invece vogliamo studiare i fatti interni non li
possiamo spiegare perché si può spiegare solo ciò che si presenta alla
coscienza dall'esterno mentre in psicologia i fatti sorgono dall'interno per cui spieghiamo la natura ma comprendiamo la vita psichica.
Per
ovviare a ciò la psicologia ha cercato invano di oggettivare i fatti
interni, suddividendo la psiche in strutture chiamate Io, Sè, inconscio,
etc. Ma Jaspers ci mette in guardia in quanto suddividendo la psiche
in strutture “non si fa scienza ma si fantastica con sembianze scientifiche in modo del tutto non scientifico”: infatti, come dice Laing, la psiche non è realmente così suddivisa, ma è il metodo che la osserva ad essere così impostato.
La
locuzione “Sé” ad esempio, che siamo soliti utilizzare, è stata
introdotta nel linguaggio psicologico italiano negli anni ’60 come
traduzione inesatta da una lingua che, a differenza dell’italiano, aveva
già nel linguaggio l’uso di “the self” come concetto soggettivo e
non in riferimento a una struttura oggettivata dall’articolo:
traducendola come “il Sé” si è caduti nell’errore di intenderla come una
struttura della mente oggettiva, quando invece il suo significato si
riferiva ad esperienze soggettive. “The self” infatti è stato
introdotto in psicoanalisi negli anni ’40 da Winnicott con l’intento
però di indicare un qualcosa di esperienziale e non di costitutivo della
mente, (quindi di soggettivo e non di oggettivo), un vivere autentico
in contrapposizione ad vivere fittizio che chiamerà falso Sé.
Così
anche l'Io, dice Rovatti, non è mai isolabile come “dato naturale”
della coscienza ed ecco perché in psicologia non si può parlare, come
per le scienze, di un soggetto e di un oggetto ma solo di un “atto”
intenzionale.
E' bene anche ricordare come questo modo di intendere la psiche,
suddividendola in parti oggettivate, mette in evidenza il paradosso
secondo cui nessun esperimento potrebbe mai stabilire che un cervello
pensa o sente, perché, come dice Wittgenstein, è l’uomo nella sua
interezza e non il cervello, la mente o una parte di essa che pensa e
sente.
L’errore che si è fatto quindi è che:
“L’uomo
dopo aver ideato le scienze naturali ha finito per intendere se stesso a
partire da quell’ideazione, cioè dallo schema che s’era fatto per
intendere la natura”; senza ricordare, continua Husserl, che “la scienza è un ideazione dell’uomo e sarebbe terribile se l’uomo si lasciasse definire da una sola delle sue ideazioni”.
Nonostante oggi sia inattuale la distinzione tra scienze naturali ( secondo cui i processi psichici vanno indagati per se stessi in modo avulso dal contesto) e scienze dello spirito ( o scientificità di tipo storico-ermeneutica) in quanto queste ultime oggi sono state sostituite dalle scienze umane
che studiano l’uomo sotto diversi profili, antropologico, linguistico,
psicologico, etc, resta aperto, come sottolinea Venturini, il problema
dello statuto scientifico di discipline che, occupandosi di un oggetto
diverso dagli oggetti delle scienze della natura, vengono a trovarsi o
esterne e non isomorfe ai fenomeni da legittimare o interne e prive di
criteri propri di legittimazione. Tali problematiche continuano
inevitabilmente a riproporsi soprattutto nel linguaggio psicologico,
come nell'utilizzo del termine "psicoterapia".
Gli equivoci della psicoterapia: l'oggettivazione della psiche.
Psicoterapia è un nome scientifico a ciò che prima era la cura delle anime, cosa che l’uomo ha sempre saputo fin da quando Platone, nel Carmide, fa dire a Socrate che ciò che cura è l’impiego di “certi carmi magici, che sono le parole appropriate”. Strotzka definisce la psicoterapia come: “un interazione tra uno o più pazienti (…) volta ad influenzare disturbi del comportamento e situazioni di sofferenza (…) con strumenti psicologici (…) per mezzo di tecniche apprendibili”. Dunque “terapia” è una parola che richiama ad una tecnica che, indipendentemente da chi la applica, raggiunge il suo scopo. Ma le abilità tecniche possono essere insegnate ed apprese proprio perché esprimono qualcosa di oggettivo e non di soggettivo, dove cioè non è in gioco alcuna psicologia: tale definizione infatti da per ovvio che esista una psiche “oggettiva” su cui fare terapia, dimenticando che la psiche non è un oggetto ma una convenzione linguistica nata con Cartesio che ha diviso l'uomo in corpo e mente, non perché l'uomo sia realmente così suddiviso, ma perché la teoria cartesiana è così impostata.
Una
volta caduti nell'errore di oggettivare la psiche è facile pensare che
esista una psicoterapia o che sia la tecnica o la teoria di riferimento a
“guarire” in qualche modo i nostri malesseri, ma non è così: ciò che
cura è l'empatia, cioè la capacità di entrare in relazione con l'altro,
di sentire ciò che l'altro sente che è una dote umana e non insegnabile,
diversamente infatti non si potrebbe capire come mai teorie e tecniche
anche radicalmente diverse tra loro possano raggiungere risultati simili
in termini di benessere come dimostra Gabbard.
Queste
constatazioni erano già evidenti agli albori della psicoanalisi, nel
famoso caso di Anna O. Anna O. era una paziente in cura dal noto
psichiatra Josef Breuer al quale disse che quando gli raccontava gli
eventi spiacevoli della sua vita si alleviavano i sintomi. Quindi la
paziente guariva, si sentiva meglio, solo perché aveva modo di parlare
per la prima volta dei suoi problemi e tutto senza l’impalcatura tecnica
psicoanalitica che di li a breve avrebbe fatto la sua comparsa.
Ecco perché C. G. Jung parlava ai suoi pazienti “come un semplice essere umano parla con un altro” in
quanto consapevole che nessuna emozione ci è estranea poiché ogni cosa,
comprese le patologie dalla schizofrenia alla depressione, esiste già
dentro ciascuno come ci ricorda Fromm.
Le
persone si sono sempre influenzate a vicenda, ma con la psicologia s'è
determinata la tendenza a ridefinire ciò come “terapia”, senza
considerare che il chiamare così ogni cosa possa aiutare le persone
segnala solo quanto si sia espanso a tutti gli ambiti della vita
l'uso del linguaggio medico.
Una possibile alternativa
Dunque
cosa resta della psicologia se essa non può essere scienza e non può
farsi “psicoterapia” ? Anzitutto il fatto che la psicologia non sia
scientifica non significa che non sia legittima: la scienza infatti, dice
Hubner, non ci dice la verità sulla cosa indagata ma solo la risposta
all’ipotesi anticipata.
Detto
ciò la psicologia dovrebbe abbandonare l'utilizzo del termine
"psicoterapia" ed essere confrontata, come suggerisce Venturini, con
quello che la sociologia ha realizzato col metodo dell' “osservazione partecipante” piuttosto che con il paradigma delle scienze naturalistiche.
Questo
metodo, diffuso dall'antropologo polacco Malinowski, evidenzia come
l'etnografo deve partecipare alle attività della società da studiare,
immergersi in quella cultura, imparare la lingua e le categorizzazioni
dei soggetti studiati, permanendo sul campo per più anni. Questo
permette di stabilire quell'empatia essenziale per descrivere il
punto di vista dei nativi, dove è fondamentale per quest'attività di
studio la capacità dell'antropologo di conquistare la fiducia e
diventare nativo a tutti gli effetti.
Da questo punto di vista allora lo psicologo, come già avanzava Szasz, è, e dovrebbe essere, solo un “teorico”, per tanto non distino dal sociologo o dall'antropologo, e non un “praticante”
che seleziona, classifica e cura. Un teorico che attraverso l'empatia
rende partecipe delle sue conoscenze i pazienti, che possono poi
“utilizzare” per comprendere meglio sé stessi e per il proprio
benessere: questo cambia radicalmente la prospettiva in quanto non è più
il terapeuta che cura perché, come già diceva Jung, se il cambiamento
che avviene nel paziente è prodotto dal paziente stesso è falso
affermare che sia stato lo psicoterapeuta a curarlo.
E
le sue conoscenze devono essere sì psicologiche, ma anche storiche,
filosofiche, poetiche, mitologiche perché è proprio da questo scenario
che emerge la psiche, che non è nient'altro che storia, e soprattutto
antropologiche per evitare quei pericolosi errori di traduzione come
abbiamo visto per l'uso di “the self”.
E'
interessante notare a questo punto come nel 1845, nel primo trattato di
medicina che affrontava il tema delle allucinazioni, Alexandre Brierre
de Boismont le studiava inserendole nel contesto storico e culturale:
già nel titolo infatti, “Le allucinazioni in rapporto a psicologia storia, moralità e religione”, veniva
sottolineata l'importanza del contesto storico religioso e culturale
perché è proprio da lì che nasce la psiche con tutte le sue
manifestazioni.
E’ opportuno allora, per comprendere qualcosa della psiche e di noi stessi, rifarsi ai suggerimenti di C. G. Jung quando disse che la psiche è così solidale con la storia da esserne profondamente modificata e che questo non consente la costruzione della psicologia come scienza esatta. Infatti sono proprio i concetti terapeutici che producono la richiesta psicologica e quando determinati vissuti psichici avranno un ulteriore scenario linguistico e culturale con cui esprimersi - cosa a cui sembra mirare la consulenza filosofica - non si paleseranno più come ansia, panico etc ma come problemi esistenziali, proprio in quanto la psiche e tutte le sue manifestazioni non sono altro che storia.
Oggi
la psicologia, anziché lottare per la costituzione di un proprio
paradigma e una propria indipendenza, sembra essersi allineata alla
branca medico/scientifica, come dimostra quell'unica definizione
chiamata facoltà di “medicina e psicologia”. Tale accorpamento però non
fa altro che sancire la sudditanza della psicologia alla medicina
(psichiatria) togliendogli così la possibilità di strutturarsi in
maniera autonoma e facendogli perdere, in cambio di un ruolo di rilievo,
tutta quella “psiche” che non si lascia afferrare né da gli strumenti
né dal linguaggio scientifico.
BIBLIOGRAFIA
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Del Miglio C.M.; “Manuale di psicologia generale”, Borla, 2000
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1972
Jaspers K.; “Psicopatologia generale”, Il Pensiero Scientifico, 2000
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Jung C.G.; “Riflessioni teoriche sull'essenza della psiche” in Opere, vol. VIII, Bollati Boringhieri,
1996
Jung C.G., “Psicologia analitica. Le conferenze alla Clinica Tavistock” Mondadori, 1975
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Rovatti P.A.; “Il luogo del soggetto”, in AA.VV., “Effetto Foucault”, Feltrinelli, 1986
Schopenhauer A.; “Il mondo come volontà e rappresentazione”, Laterza, 2009.
Schultz D.P.; “Storia della psicologia moderna”, Giunti Barbera, 1974
Szasz T.; “Il mito della psicoterapia”, Feltrinelli, 1981
Wittgenstein L., “Ricerche filosofiche”, Einaudi, 1974
Wittgenstein L.; “Osservazioni sulla filosofia della psicologia”, Adelphi, 1990
Si vedano tra l'altro gli articoli di R. Venturini:
Venturini R.; Psicologia, psicofisiologia e nuovi movimenti
Venturini R.; Psicologia Transpersonale, in “Informazione in psicologia, psicoterapia e psichiatria”, 1998, 9, n° 3435
Per approfondire il lavoro di Malinowski si veda tra l'altro:
Schultz E. A.; Lavenda R.H., “Antropologia culturale” Zanichelli, 2010